Dal 7 di marzo 2020, siamo tutti a casa a causa del Coronavirus. Iniziò anche per me un tempo dilatato e lungo per leggere, guardare le notizie alla TV, comunicare via computer e telefono con tutti coloro che normalmente hanno fatto parte e sono parte della mia vita. Poi presero piede tanti lavoretti sollecitati e organizzati da mia moglie all’inizio abbastanza noiosi ma necessari che cercai di evitare relativi alla sistemazione e catalogazione di libri e raccolte che giacevano disordinatamente sulla libreria. Così a furia di richiami mi decisi ad affrontare di malavoglia l’impegno.
Ad un certo punto nel corso di questo lavoro in fondo anche di piacevole riscoperta, iniziò ad agire dentro di me un serpentello strano che mi chiedeva:
”Caro Giacomo ma cosa hai fatto fino ad ora nella tua vita? Sei felice ed appagato? Avresti potuto fare di più? Sei convinto di avere agito sempre bene?”
Cercai di allontanare quel pensiero che mi portava ad una riflessione troppo complessa, ma il serpentello continuò ad insistere portandomi piano piano ma inesorabilmente ad affrontare e dare una risposta sulla mia vita e il mio passato. Così andai con la mente a quando ero ragazzo e avrei voluto frequentare le scuole medie, ma la mia famiglia optò per l’avviamento al lavoro e poi la frequenza di una scuola interna aziendale che preparava così i giovani apprendisti da introdurre in fabbrica. Ogni trimestre si doveva sostenere un esame e chi non arrivava alla sufficienza veniva mandato a casa. Io ebbi uno scontro, diedi un cazzotto ad un compagno che mi scherniva e così ci tolsero un punto ad entrambi in tutte le materie. Riuscii per un soffio a farcela. Fui ammesso in fabbrica come apprendista elettricista. Avevo 16 anni. Il mio compagno invece venne estromesso. Anni dopo lo incontrai per caso, mi riconobbe e mi abbracciò ringraziandomi per il cazzotto perché aveva trovato successivamente un buon posto in banca.
La cosa più significativa che ricordo di quei tempi è certamente la sveglia al mattino alle ore 6,30 la partenza da casa in bicicletta. A Milano il fiume Olona era ancora scoperto e una mattina d’inverno, causa il ghiaccio, la bici scivolò e io finii oltre la siepe che faceva da parapetto al corso d’acqua e fui salvato, prima di finirci dentro, da alcuni operai che videro il fatto e mi soccorsero.
Mi portarono poi ridendo in osteria e mi fecero bere, per tirarmi su dallo spavento, un “grigio verde” di cui non ho più dimenticato il sapore e la gradazione alcolica: da far risuscitare i morti! C’era molta solidarietà allora, perché tutti gli operai si riconoscevano in una categoria condivisa.
La sera tornavo a casa sempre in bici. Mia madre mi preparava un boccone e poi via col tram n° 16 per raggiungere l’istituto tecnico serale Ettore Conti in via S. Marta dove, nella sezione C, ero l’allievo più giovane e con i calzoni corti (i primi pantaloni lunghi li ho avuti a 18 anni ricavati, da mia madre, da un paio di quelli mio padre opportunamente rivoltati e adattati). Molti compagni di scuola erano già maggiorenni perché col diploma ambivano giustamente ad una vita lavorativa e carriera migliore.
Ricordo che talora eravamo così stanchi che qualcuno si addormentava sui banchi ma gli insegnanti capivano ed erano comprensivi. Quando però arrivava il prof. Bergognoni che insegnava a noi lettere e invece dizione agli allievi attori del Piccolo Teatro, allora tutti svegli perché ci introduceva alla comprensione della Divina Commedia o dei i Promessi Sposi con una dizione meravigliosa facendo le voci e mimando i diversi protagonisti. Troppo interessante e coinvolgente per dormire!
Alle ore 23 si usciva da scuola e ricordo che sul portone trovavo, l’ho saputo dopo, una prostituta che quasi tutte le sere mi accompagnava al tram per tornare a casa e mi chiedeva della scuola e di come era andata; una volta, davanti ad un gelato che mi offri e che non rifiutai, mi disse che aveva un figlio lontano della mia stessa età e che mi somigliava. Questa fu la mia adolescenza.
Ed arrivò il diploma, avevo 20 anni, ed arrivò anche una giovane donna di nome Mafalda che conobbi per puro caso alla biglietteria della stazione Nord perché scoprii che andavamo in vacanza nello stesso paesino di montagna in val Vigezzo dove io ero ospite nella casa di Silvio un caro amico d’ infanzia. Finì così che ci frequentammo. Ricordo perfettamente il primo bacio, nella notte di S. Lorenzo sotto un cielo stellato, nell’immensa e selvaggia valle Cannobina solcata dall’impetuoso torrente Barro, che si concluse con uno scontro di ardenti zigomi. Poi ridemmo felici della nostra impreparazione ma i successivi tentativi furono molto più appropriati!
Col diploma e col tempo feci carriera e passai nell’ufficio tecnico dove, prima come impiegato e poi come quadro, mi occupai per quasi 35anni di automazione delle centrali idroelettriche.
Dopo 6 anni di fidanzamento e di frequentazione finalmente ci sposammo, Mafalda 25 anni ed io 26 ed andammo a vivere in un appartamentino di proprietà dei genitori di Mafalda (qualche giorno fa abbiamo compiuto 53 anni di matrimonio insieme.)
Dopo due anni esatti di matrimonio mi trovai felicemente padre di due figli: Davide e Diego. Questi due ragazzi sono cresciuti con dei buoni sentimenti e valori. Diego, in verità, molto ribelle, aveva fatto suo il detto che la disobbedienza aiuta a migliorare le convenzioni e consuetudini cristallizzate. Oggi si sono comunque ben realizzati con il lavoro e con la famiglia e ci hanno resi felicemente nonni di 5 nipoti: Giacomo di 19 anni, Tommaso di 17, Viola di 13, Matilde di 11 e Mattia di 6 anni.
Alla nascita dei miei due figli Mafalda e io capimmo che il ns nido d’amore (così piccolo che Mafalda rimase incastrata allora col “pancione” nel cucinino tra la cucina a gas e il lavello) era diventato nel frattempo un nido d’infanzia e necessitava quindi cambiar casa. Così con molti sacrifici comprammo un appartamento ovviamente col mutuo in via val D’Intelvi a Baggio dove risediamo tuttora e, miracolo!, nel condominio ritrovai alcuni compagni della 5 C dell’istituto Ettore Conti: Gianfranco il mio compagno di banco, Sergio, Romano, Giorgio, Antonio e cosi i nostri figli frequentarono le stesse scuole dell’obbligo e noi continuammo la nostra amicizia con mille idee e frequentazioni.
Arrivò infine la pensione, lasciai il lavoro senza rimpianti perché nel frattempo mi ero creato degli interessi di carattere sociale, frequentavo, l’Associazione Mani Tese, le suorine di Madre Teresa di Calcutta, scrivevo su “Il Diciotto”, conobbi Teresa Bonfiglio che mi invitò a conoscere il gruppo H in Piazza S. Apollinare. Esemplare l’incontro: mi affacciai sulla porta della sede del gruppo e vidi tante persone disabili che non immaginavo di incontrare. Provai un pugno nello stomaco e non mi mossi dalla soglia. Mi vennero incontro due sorelle gemelle con la sindrome di Down e si disposero ai miei fianchi, una mi guardò e mi chiese come mi chiamavo, l’altra mi accarezzò una guancia e mi disse come sei bello (dimostrando però la necessità di ….un paio di occhiali) poi mi presero per mano e mi accompagnarono nel gruppo che mi aspettava con trepidazione. Da allora non mi mossi più da loro; aiutai Teresa nel realizzare l’Associazione Il Gabbiano: noi come gli altri prima come volontario rimanendo nel tempo e tuttora sempre fedele a questa mia scelta. Da allora tante cose abbiamo fatto grazie a Teresa, ai volontari, alle due psicologhe Laura e Federica che costituiscono la nostra squadra ma anche da tante persone e da Baggio e la sua gente che ci hanno sostenuto con la loro presenza e sostegno economico.
Ecco “serpentello” ti ho raccontato la mia vita, ora a breve compirò settantanove anni. Non sono in grado di dirti altro. Il futuro è diventato difficile da ipotizzare anche se inevitabile! In verità, sarò un codardo, ma non ci voglio pensare. Molte persone che ho conosciuto e frequentato non ci sono più purtroppo! Lascio a te di tirare un giudizio. Quello che ti posso dire è che se tornassi indietro, lo so che è un luogo comune, ma farei di nuovo tutto quello che ho fatto con rinnovato entusiasmo.
Giacomo