E’ raro, perché molto difficile, raccontare una storia di handicap senza scivolare nella retorica dei “buoni sentimenti”. Forse Daniela Nardini, nel suo “Un bambino davvero speciale”, ci è riuscita così bene perché alla cronaca dell’esperienza che ha vissuto personalmente, ha affiancato (e raccontato) quel processo, quotidiano, di crescita interiore che l’ha portata ” … crisi dopo crisi, all’accettazione piena e totale dell’handicap del proprio figlio e alla conquista di spazi di autentico amore, in cui trova il suo significato più profondo anche la vita di un bambino speciale”. Il libro è stato stampato con il patrocinio del Comune di Rufina (Fi) -dall’editore fiorentino FMG Studio Immagini. Costa 18 mila lire, è disponibile, per ora, solo nelle librerie fiorentine ma puo’ essere richiesto all’indirizzo internet del libro dedicato a Tommaso è: http://www.itwg.com/home/tommaso
Tommaso è un ragazzino speciale perché non comunica né si muove come gli altri. Ma è speciale anche perché non sono molti i protagonisti di un libro che trasforma la cronaca di vita quotidiana in un’avventura più avvincente di Indiana Jones, dove il capo dei cattivi ha le mille facce della superficialità e dove la pietra verde rappresenta il raggiungimento della pace con sé stessi. Il protagonista, Tommaso, non ha la struttura fisica di Harrison Ford, così come non ce l’ha la scrittrice, che è sua madre, ma che potrebbe essere una qualunque madre di qualunque altro bambino. La sua casa è in un paesino nei pressi di Firenze ma, a pensarci bene, lui abita indifferentemente anche a Baggio, come nel centro di Roma o nella periferia di Bologna. Non esiste, infatti, un luogo della Terra dove una mamma che metta al mondo un figlio spastico non provi quello che ha provato Daniela. Esistono però centomila diversi modi di porsi e di reagire di fronte a questa prova: Daniela Nardini ha descritto il suo. E lo ha fatto senza risparmiarsi. Scendendo con lo scandaglio fino a profondità probabilmente sconosciute, prima di tutto con sé stessa e poi, di riflesso, anche con gli altri: parenti , amici, conoscenti, colleghi, medici…. Come in un diario di vita quotidiana, Daniela racconta la serenità e la piena accettazione dell’handicap di Tommaso da parte di suo marito Carlo e le reazioni del fratellino maggiore Checco, che gli amichetti chiamavano “il fratello dello spastico”. E poi ancora l’odissea con i medici, l’insufficienza delle strutture e, soprattutto, quelle barriere architettoniche fatte di mattoni e di pre¬giudizi. Pregiudizi che riguardano tutti e, senza distinzioni ipocrite, anche l’autrice del libro. Che racconta con lucidità lo stordimento che le impediva di amare come un figlio quel bambino “speciale” e che la distoglieva dall’inseguimento della sua “pietra verde”. Uno stordimento che dura anche quando Tommaso sembra stia per morire a causa di una meningite … e che improwisamente si scioglie come neve al sole. Anzi, come…
” … una frustata che brucia sulla pelle .. Fino a quel momento io avevo guardato mio figlio solo in termini di ricerca di qualità della vita e questo è un concetto discriminante e pieno di ipocrisia perché, in nome della qualità della vita ideologicamente assunta avrei accettato di buon grado la morte di mio figlio, addirittura me la auguravo, giustificandola solo con il fatto che, a causa della gravità della sua malformazione, la sua mi sembrava una non-vita. La qualità della vita deve essere un’idea complementare alla vita, non puo’ essere confusa con la vita stessa che, qualsiasi essa sia, ha sempre un suo significato intrinseco e per questo va rispettata e amata”.
Proprio come quei fiori , per usare un paragone di Daniela, che sono straordinariamente belli e fragili, che sì, appassiscono più velocemente, ma che hanno avuto comunque un senso, per quella sensazione di stupore e ammirazione che hanno saputo regalarci. Se è vero che un’esperienza diretta è mille volte più preziosa di una lezione a scuola, allora questo libro andrebbe letto. Andrebbe letto perché mettendosi in discussione così profondamente , questa mamma-scrittrice racconta così bene la sua esperienza diretta, da permettere al lettore di interiorizzare i valori che trasmette. Per esempio, che la concezione della vita, non è una sola: che la vita valga la pena di essere vissuta solo per il triangolo “soldi-carriera-potere” è un valore forse discutibile, probabilmente legittimo, ma sicuramente non l’unico possibile. E questa è una notizia che emerge dalla lettura, non un commento. Anche perché è la stessa autrice a ricordarci con esempi di vita concreta che il mondo non è bello e colorato e che a volte non basta volersi bene e non essere superficiali per superare le difficoltà. Prima dell’accettazione dell’handicap di Tommy, per esempio, c’era la vergogna di portare il bambino ai giardini pubblici.
E oggi? Oggi può succedere che, dopo un’ora di paziente “lavoro” , una goccia d’acqua faccia vomitare a Tommaso tutto il pasto. O magari c’è l’ignoranza, che prende le forme di q uel capoufficio il quale, alla richiesta (imbarazzata) di poter usufruire della legge 104 (tre giorni di permesso al mese) non alza gli occhi dal giornale, di fronte al silenzio (imbarazzato) si limita a dire “continui” e infine rompe il silenzio (imbarazzato) dicendo “Con tutti i disoccupati che ci sono in giro, proprio lei doveva capitarmi!” (pagina 102). Eccola qui una bella dimostrazione che non è sufficiente non essere superficiali perché tutto il “brutto” diventi “bello”. Eccola qui la dimostrazione che come i bambini riescono ad essere cattivi perché non hanno la percezione del male che possono infliggere, anche gli handicappati inconsapevoli come quel capoufficio (o come le decine di gentilissimi signori e signore che ” … se ha bisogno di qualcosa me lo dica eh, mi raccomando”) si trasformano in grossi bastoni e vanno ad impiantarsi tra le ruote. E per un po’ impediscono loro di girare come dovrebbero e come potrebbero. Ma poi vengono semplicemente spazzati via: a guardarli bene sono fragili come fuscelli.
Giampiero Remondini