Come ogni anno l’Associazione “Il Gabbiano – Noi come gli Altri” si impegna a portare la disabilità nelle scuole medie superiori di Milano, e lo fa proprio fisicamente, ossia portando le persone con disabilità nelle classi e nelle palestre per giocare con gli studenti adolescenti. Ad una prima lettura può sembrare strano leggere e capire questa necessità, d’altronde nelle scuole ci sono già studenti con disabilità. Si parla spesso di bisogni educativi speciali, disturbi dell’apprendimento e insegnanti di sostegno. Questo è sicuramente vero, ma quello che abbiamo osservato in questi anni è che i giovani studenti con disabilità sono seguiti minuziosamente in tutti quelli che sono gli aspetti di cura, che vanno dall’igiene personale al diritto allo studio, mentre sono poco considerati i bisogni di socializzazione. Nelle classi è frequentemente presente un solo studente con disabilità che deve tenere testa a un gruppo di 20-25 studenti con un sviluppo normale delle capacità di interazione sociale (è come mettere uno studente di primo livello di lingua inglese in una classe di madrelingua, in questo caso anche la elementare capacità di ordinare un caffè viene soppiantata dalla sofisticata capacità di comunicazione del compagno madrelingua). E quindi che fare? In questi anni abbiamo pensato, e la cosa sembra funzionare visto che portiamo avanti questo progetto ormai da 10 anni, di sovvertire questa tendenza e portare un gruppo di persone con disabilità in classe. In questo modo abbiamo una proporzione più equa tra persone con disabilità e persone normodotate o, riprendendo l’esempio di prima, tra persone madrelingua e studenti di livello uno. Questo rende possibile, anche per lo studente di livello uno di poter far pratica delle piccole conoscenze della lingua. Ecco, quello che promuoviamo è una specie di “palestra di socializzazione e di comunicazione empatica”, dove anche gli studenti con disabilità possono percepire come efficace la loro comunicazione e le loro azioni, perché finalmente hanno degli interlocutori alla loro pari. Nasce, di conseguenza, negli studenti normodotati una reazione spontanea ad adeguarsi al ritmo di gioco dei compagni con disabilità, grazie al fatto che le persone con disabilità sono presenti in squadra in proporzione maggiore (3 contro 2). Se al contrario, ci fosse stata sola una persona con disabilità in squadra, questo “adeguamento” dei tempi di gioco sarebbe stato meno spontaneo e molto difficile, e soprattutto imposto – e sappiamo come sia difficile imporre delle cose agli adolescenti.
Potremmo dire che la buona riuscita di questo progetto, come per una ricetta di cucina, sta tutte nella proporzione degli ingredienti. Questo equilibrio delle forze in campo produce una richiesta indiretta agli studenti, quella di riappropriarsi di una grandissima facoltà umana: il controllo di sé. Perchè poi in fondo il calcio o il basket non sono solo dei giochi, ma mimano le dinamiche relazionali che normalmente mettiamo in atto nella vita di tutti i giorni.
Abitualmente agiamo in modo automatico, lo capiamo bene proprio in questi giorni apocalittici, in cui dobbiamo trattenere lo slancio teso a un abbraccio o dobbiamo bloccare una mano pronta a stringerne un’altra. Siamo obbligati a rivalutare ogni nostro gesto, anche quello più banale, a riformulare ogni nostro pensiero, ora che non c’è più un nemico esterno da accusare, se non un “noi” da comprendere e proteggere. Ed è esattamente quello che succede nel gioco di squadra, gli adolescenti normodotati, devono trattenere lo slancio, l’azione che manderebbe il tiro a canestro. In quel momento cambia l’anatomia dei pensieri, delle emozioni, non ci si arrabbia per il gol mancato, per il compagno che non ha passato bene la palla, in quel momento si pensa a quel “noi-squadra” così imprevedibile e fragile, che deve essere tutelato per far funzionare il gioco.
Vogliamo con questo nostro piccolo, ma significativo, progetto possa rendere le persone più consapevoli che ogni loro singolo gesto, ogni singola azione, ha una conseguenza sugli altri – una specie di lezione di consapevolezza, un esercizio di stile. In questo momento così complesso a livello sociale e in questo contesto cosi delicato come quello della disabilità, crediamo che creare occasioni per de-automatizzarci e pensare al “noi-squadra” posso aiutare a ridurre i fenomeni di bullismo, come gli esempi positivi che arrivano dall’Europa del nord dove sono stati attivate delle lezioni in aula sull’empatia (ossia la capacità di mettersi nei panni dell’altro) ci insegnano.
Laura Faraone