#inviaggiocolgabbiano – VI tappa. La disabilità riguarda la sfera sociale e quindi il dovere per le Istituzioni di trovare soluzioni che garantiscano i diritti. Ma va a anche a toccare corde più nascoste, chiamiamole “spirituali”, o che comunque riguardano la coscienza e quindi l’agire di ciascuno. La presenza a Baggio (Mi) dell’Arcivescovo di Milano Mario Delpini in occasione della Solennità del “Corpus Domini”, la sera di mercoledi 19 giugno, ci è parsa una buona occasione di farle vibrare un po’ queste corde. Lo abbiamo incontrato subito dopo la funzione delle 21, nella Chiesa di piazza Sant’Apollinare. E lui ha spiegato come un cristiano si rapporta con la disabilità. Ha anche segnalato il pericolo che l’individualismo restringa l’orizzonte alla sola soddisfazione dei propri bisogni.
di Giacomo Marinini e Giampiero Remondini
Ci interessa prima di tutto comprendere la percezione che ha della disabilità. Lei cosa “avverte” quando incontra una persona che ha un limite evidente o un’autonomia ridotta?
Cerco di non mettere in evidenza il limite, ma la persona. Quando vedo una persona che ha qualche limite o qualche riduzione di autonomia, vedo una persona che ha delle speranze e che ha diritto di essere felice, come le altre. Più che al limite sono attento alle sue potenzialità.
Cosa dice e cosa sollecita la nostra religione a proposito di disabilità?
La nostra religione si ispira a Gesù. Di fronte a tutte le malattie, alla paralisi, all’incapacità di autocontrollo dei movimenti, di fronte a tutte le forme di sofferenza, la parola che il Vangelo esprime commentando l’atteggiamento di Gesù è che “ne provò compassione”. Gesù si avvicina, “tocca” la persona e dice: “La tua Fede ti ha salvato”. Le indicazioni per i cristiani sono chiare: bisogna avvicinarsi a chi vive con dei limiti. “Toccare” significa esprimere partecipazione e dare una parola di speranza. Questo fanno i cristiani.
Come agire per rompere l’isolamento in cui spesso cadono le famiglie che vivono questa condizione?
Voi lavorate da trent’anni in questo campo, avete più esperienza di me… Direi comunque che vedo due percorsi. Uno è quello della famiglia che non deve ripiegare su stessa, nè avere vergogna o sensi di colpa. L’altro è della comunità che sta intorno, che deve far sentire la presenza. Che deve accorgersi se ci sono persone che hanno bisogno di un’attenzione specifica e che, come fate voi, deve avere la creatività nel creare occasioni d’incontro e di solidarietà. Sono importanti per alleviare la fatica assistenziale che nasce quando in casa c’è una persona con disabilità. Serve intraprendenza.
Parliamo anche di volontariato. Notiamo un calo di presenze tra i più giovani: secondo lei come si fa a costruire un approccio diverso rispetto al tema della solidarietà? Cos’è che non fa germogliare quel seme?
Sono cause complesse da analizzare a fondo. Tra i tanti aspetti da considerare non escluderei quello del numero: la popolazione giovanile è meno numerosa di una volta. Ma non è l’unico elemento. Forse alcune forme di volontariato che le generazioni precedenti hanno creato non corrispondono più alla sensibilità… ma anche queste sono solo supposizioni. Io vedo giovani che vanno in Africa durante l’estate, giovani che vanno nelle comunità di disabili, negli oratori.
Ce ne sono ancora, certo
Beh… lo spero! Ce ne saranno sempre. Magari hanno sensibilità diverse. Può darsi che in un periodo storico come questo certi canali siano più congeniali per loro di altri. Difficile dare una risposta certa.
La volontà del singolo può fare molto, però l’organizzazione sociale rende difficile quella forma di ‘”antagonismo silenzioso” che è l’agire gratuito. Quale prezzo paghiamo? E cosa suggerisce perche quella scelta non venga rimossa?
La società siamo noi. Certamente ci sono fenomeni sociali che inducono all’individualismo, alla paura di esporsi, al desiderio di non avere impegni che poi producono responsabilità. A volte la solidarietà si riduce a un'”offerta” perché prendersi un impegno mette più a disagio. Anche l’impostazione del lavoro è un elemento importante: prima il confine tra lavoro e tempo libero era più netto. Adesso è più sfumato. Prima i tempi disponibili erano più “certi”, oggi è più difficile. Però associarsi resta una scelta fondamentale. Da soli si possono avere tante buone intenzioni, ma poi è difficile metterle in pratica. Associarsi crea le condizioni per dare continuità a un’opera, perchè se uno rallenta c’è un altro che interviene. Invece sul piano personale ci sono le motivazioni: vanno coltivate per reagire a una pressione che spinge verso l’individualismo e verso l’enfasi sui propri bisogni.
Proprio poco fa, nell’omelia, lei ha messo in guardia da un orizzonte che piano piano si restringe solo alla soddisfazione immediata dei propri bisogni
Il rischio è che la carità si riduca a un gesto immediato. Che venga a perdersi la pazienza e la costanza di costruire una “correzione” del sistema. Ma noi restiamo gente della speranza… e non ci abbattiamo di sicuro.
* Grazie allo Staff dell’Arcivescovo Mario Delpini e al Parroco Don Paolo Citran per il supporto nell’organizzazione
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