Nell’ambito delle azioni del POD (Polo Ovest Disabilità) – si è tenuta una tavola rotonda sul “Significato dell’esistere e disabilità grave”. Questa tavola rotonda rappresenta, a mio parere, molto efficacemente le finalità del POD – che ricordiamo nasce nel marzo 2011 dall’unione di due tavoli di rete: tavolo H6 e AbitiamOvest. Il POD, di cui anche l’Associazione Il Gabbiano fa parte, è ora strutturato in 3 gruppi di lavoro (Abitare, Tempo Libero e Visibilità), ai quali partecipano sia operatori che familiari. Questa pluralità di tematiche e di figure consente di allargare la cornice di senso entro la quale le azioni sono svolte e pensate, per collocarle in una dimensione più ampia di significato, ossia “il significato dell’esistere nella disabilità, anche grave”.
Ma cosa significa “esistere”? “essere?”. Si dice che noi nasciamo due volte: “nella famiglia si nasce e nel mondo si rinasce”. “Essere figli” è la base della costruzione dell’identità, del senso dell’esistere, ma non può rimanere l’unico modo di stare e di sentirsi al mondo. Gli operatori e i familiari della rete del POD sono chiamati costantemente a promuovere (e in un certo senso a forzare) questo processo di “rinascita nel mondo”, che spesso, per motivi anche culturali e sociali, è precluso alla persona con disabilità. Per la costruzione della propria personalità è necessario che anche la persona disabile sperimenti delle relazioni privilegiate esterne alla famiglia, trovi dei luoghi a cui sente di appartenere, senta le sue azioni come spontanee e determinate dalla sua volontà e costruisca una sua identità – al di là dell’essere una persona con disabilità. Questi processi sono però più difficili da definire, da pensare e da accogliere nell’ambito della disabilità grave-gravissima.
Come possiamo rispondere alla domanda qual è il significato dell’esistere quando le condizioni di esistenza sono così lontane da quelle comunemente intese? Vivere, crescere, fare, imparare, sentire, amare… come possono essere considerati questi aspetti – per noi così fondamentali – per quelle persone silenziose, ferme in un eterno presente, che sembrano non muoversi sulla linea temporale della vita. Per aiutarci a comprendere questa tematica così complessa e delicata hanno preso parte, alla tavola rotonda, diversi esperti. Al dibattito si sono alternate diverse figure: dal medico al teologo, dal genitore all’esperto di settore, per consentire di vedere la disabilità grave da diversi punti di vista.
Il pensiero di Battista Guazzetti (medico, Don Orione di Bergamo) può essere sintetizzato in due concetti principali, quello di cura e quello di condizione naturale. Guazzetti afferma che la difficoltà maggiore nel percorso di assistenza di una persona con disabilità grave, sia per gli operatori che per i parenti, è quello di accettare questa condizione esistenziale non come una malattia che può essere curata, ma come una condizione “naturale” – quindi non “artificiale”. Queste persone non dipendono da macchine o supporti esterni, ma, come tutti gli essere viventi, dipendono esclusivamente dalla nutrizione, dall’igiene e dal movimento. L’eterno lutto che, tuttavia le famiglie e le persone si trovano a vivere di fronte a questa condizione “vegetativa”, fa sì che vi sia la necessità di rinnovare costantemente i valori della condizione umana della vita, che va tutelata e accolta nella sua fragilità e non solo nella prospettiva di un percorso di cura e guarigione.
Il significato dell’esistere, i valori della condizione umana, il lutto della famiglia, sono aspetti vissuti e raccontati con parole semplici e autentiche da Donata Sorrentino (familiare), che descrive la sua esperienza di madre e la sua scelta, condivisa col marito, di essere famiglia, di essere coppia e di “essere”. La condizione di disabilità grave del figlio le ha permesso di riflettere molto sul vero senso dell’esistenza – non solo della persona con disabilità – ma di tutti i componenti della famiglia. La coesione familiare, l’attenzione al benessere e ai bisogni di tutti i componenti, il diritto alla realizzazione individuale sono aspetti che non sono nati spontaneamente, ma che hanno implicato un processo lungo e difficile di crescita e di confronto. Confronto che Donata per prima ha dovuto affrontare con se stessa. “Ho dovuto – dice – imparare a sentirmi in diritto di soffrire, di potermi concedere momenti di malinconia e disagio, di poter affrontare senza sensi colpa il lutto per il figlio “sano” che non ho avuto“. Poi aggiunge: “Ho dovuto imparare ad accettare la mia impotenza di madre, la paura per l’assenza di una cura, la difficoltà a dare fiducia all’altro, a cui affido mio figlio”. Imparare a riconoscere questi stati d’animo, senza spaventarsi ma accettandoli, ha permesso a questa mamma di vedere le potenzialità di questa condizione e di porsi nella vita quotidiana come individuo e come madre, in modo da poter accompagnare i suoi figli nella loro realizzazione personale, qualunque fosse la loro condizione. Conclude dicendo: “per me essere una persona realizzata era l’unico modo per avere la forza e le risorse per poter affrontare le difficoltà”. La vita del figlio di Donata si è interrotta prematuramente pochi giorni prima di andare a vivere in una nuova grande casa, che la famiglia aveva scelto affinchè potesse accogliere quel mondo esterno che il figlio non poteva raggiungere.
Il dibattito sul significato dell’esistere è proseguito con l’intervento di Pierangelo Sequeri (teologo, fondatore di Esagramma) che basa le sue riflessioni sul senso dell’esistere come fortemente connesso alla ricerca della felicità e della realizzazione personale, a cui noi tutti aspiriamo. La felicità è però spesso confusa e ridotta alla ricerca della gratificazione; di una gratificazione materiale e personale, che diventa distruttiva e depressiva, in quanto si poggia sull’ideale della “fatica zero!”. Provocatoriamente Sequeri dice “Io combatto la trappola della felicità, perché la ricerca della gratificazione utilitaristica è fine a se stessa. Non porta alla crescita, al cambiamento e all’apprendimento, ma alla immobilizzazione, all’intorpidimento e allo smarrimento. La crescita, il cambiamento sono infatti aspetti che inevitabilmente comportano una quota di dolore e sforzo, poiché non vi è apprendimento senza sforzo, senza cambiamento, senza la perdita di qualcosa (anche solo lo stato di conoscenza precedente)“. Le riflessioni di Sequeri si basano sul concetto di attitudine etica – ossia di incessante ricerca, di continuo cambiamento e sforzo – che non si distrugge mai. Ogni essere umano, per quanto può essere grave la sua disabilità, rimane umano, poiché qualsiasi semplice gesto trasmette qualità etica, ossia umana.
Questa tavola rotonda, grazie all’intervento di tutti gli esperti, ha rappresentato un momento di importante riflessione e di sensibilizzazione culturale, che ha reso “pensabili” alcuni aspetti legati alla disabilità grave, difficili da elaborare e da condividere. Questo incontro ha, tuttavia, aperto molti interrogativi ai quali forse non potremo mai rispondere. Quello che però sicuramente possiamo fare, come operatori, come famiglie e come individui, non sono azioni straordinarie e nemmeno la ricerca di soluzioni e cure magiche. Possiamo invece curare la possibilità dell’esistere. Il senso dell’esistere deve essere sentito da parte di tutti come il dovere (e anche il diritto) di essere quello che si è, con i propri limiti, piuttosto che la rincorsa a un poter essere chissà chi.
(Laura Faraone)
Chi fosse interessato ad avere maggiori informazioni può contattare l’associazione Il Gabbiano – Noi come gli altri in via Ceriani, 3. (Tel. 02 48911230 – Orario: da lunedì a venerdì dalle 9 alle 13).
Chi fosse interessato ad avere maggiori informazioni può contattare l’associazione Il Gabbiano – Noi come gli altri in via Ceriani, 3.
(Tel. 02 48911230 – Orario: da lunedì a venerdì dalle 9 alle 13).
Per informazioni sul POD: www.polovestdisabilita.it