#inviaggiocolgabbiano – Pierangelo Sequeri è un uomo che ha investito energia e fiducia nelle potenzialità delle persone speciali, confidando nel potere di un formidabile alleato: la musica. E’ musicologo, musicista e docente e con Licia Sbattella ha fondato l’Orchestra Esagramma, un ensemble composto da musicisti professionisti e da persone con caratteristiche come la sindrome dello spettro autistico, la psicosi o il ritardo cognitivo (oggi Esagramma è un centro che lavora su diversi fronti). Lo abbiamo intervistato per farci raccontare l’avventura di questa stupefacente orchestra, nata nella seconda metà degli anni ’90 come evoluzione di un’esperienza parrocchiale iniziata dieci anni prima al quartiere Olmi, e arrivata a fare concerti sulla RAI, in mondovisione. Ma poi la conversazione è scivolata sul suo, personale, rapporto con la disabilità e sulla definizione di principi più generali che rendono “rispettoso” l’approccio con chi evidenzia un limite. Principi che riguardano sia il cristiano (mons. Pierangelo Sequeri è un teologo ed è stato nominato preside del Pontificio istituto Giovanni Paolo II da Papa Francesco) che il laico. Questa intervista ci riporta #inviaggiocolgabbiano e alla nostra intenzione di fare cultura sull’inclusione sociale, valorizzando la disabilità come risorsa.
di Giacomo Marinini e Giampiero Remondini
Vuole raccontarci dell’esperienza di Esagramma? Non è comune un’orchestra formata da musicisti professionisti e da persone con caratteristiche come l’autismo, la psicosi o il ritardo cognitivo, che fa oltre 150 concerti nel mondo.
L’esperienza di Esagramma, detta in breve, nasce dall’ipotesi di creare una efficace sinergia fra tre fattori di energia positiva: l’interesse della potenza sintattica, non solo emozionale, della musica, che sviluppa capacità molto articolate di relazioni logiche e personali, senza passare attraverso la competenza semantica (verbale, cognitiva, discorsiva); il valore aggiunto di un gruppo di lavoro che motiva forme di intesa anche molto raffinate e modulate, con la gratificazione di un risultato sperimentabile e godibile; il prestigio di un’attività non puramente infantile, confermato dalla partecipazione “alla pari” di professionisti che la praticano anche in contesti sociali di alto profilo.
Una strada mai esplorata, prima.
Quando abbiamo cominciato, nessuna di queste tre caratteristiche di quella che ora è l’Orchestra Esagramma era valorizzata nell’ambito delle limitazioni di tipo mentale-psichico di una certa importanza, con l’obiettivo di accrescere la coscienza di sé, l’autocontenimento espressivo e la competenza relazionale in situazioni di speciale difficoltà a livello di parola e di comportamento. L’ipotesi è stata validata, con risultati apprezzabili per i competenti e con ricaduta positiva sugli stessi nuclei famigliari. L’inizio è stato accolto – comprensibilmente – con un certo scetticismo. Ora però, a parte i gruppi di lavoro a metodo Esagramma che noi stessi abbiamo costituito, la sensibilità per lo “strumento orchestrale” nell’ambito della riabilitazione ha preso piede.
Con quale evoluzione?
Noi andiamo avanti con un programma articolato di ricerca che prevede il reinvestimento dei potenziali evocati dal lavoro orchestrale nell’ambito dell’apprendimento cognitivo e della relazione sociale. Il nostro master di formazione (per musicisti, psicoterapeuti, educatori), riconosciuto dal MIUR è un punto di riferimento anche per i percorsi universitari di specializzazione e di tirocinio. E l’esperienza di un concerto dell’Orchestra Esagramma continua ad essere straordinaria sorgente di entusiasmo e di impegno nei confronti delle possibilità di lavoro a vantaggio di ragazzi molto “speciali”.
Quindi se è approcciata non come distrazione, in stile “sottofondo in negozio”, ma come linguaggio vero e proprio, la musica ha il potere di accendere prospettive di partecipazione a tutti.
Spesso il limite rende più faticoso l’investimento sulla parola e questo genera un ripiegamento su di sé, amplificando le difficoltà nelle relazioni. La parola può risultare persino prepotente… dove l’espressione è povera, proprio lì, viene allora in soccorso la musica. La musica ha un sintassi potentissima e raffinata, che tratta il limite come una condizione umana. Non solo, la musica quel limite lo sfida. Anche quando si tratta di un limite indotto, come nel caso della deprivazione sociale. Recentemente abbiamo esteso il metodo, rivolgendoci ai detenuti di un carcere nella regione di Lille, in Francia. Suonano Mozart o Beethoveen, in orchestra. Ciascuno ha il suo ruolo. Ciascuno è necessario e insostituibile.
Tornando alla disabilità: cosa “avverte”, da un punto di vista emotivo, quando incontra una persona che ha un limite psichico evidente?
La mia emozione fondamentale rimane quella che ho avuto cinquant’anni fa, quando ho avuto le prime esperienze di contatto ravvicinato con l’handicap psichico: mi sento molto intenerito e molto in debito. Sono molto intenerito perché mi immedesimo nella fatica di un essere umano che deve farsi strada dentro un “guscio” che limita molto la disponibilità delle risorse che altri hanno a portata di mano. E sono molto in debito, perché sento che c’è qualcosa di speciale da restituire alla promessa che noi facciamo a un essere umano tutte le volte che lo ospitiamo nella comunità umana. Ognuno deve inventarsi qualcosa – e la società tutta, naturalmente – per onorare il debito di questa promessa, che qui chiede una disponibilità speciale a metterci del proprio. Esagramma vuol dire questo: chi parte svantaggiato, nei nostri confronti, ha diritto a un rigo in più (le righe del penta-gramma sono cinque. “Esa”-gramma le porta idealmente a sei). L’umanità che abita è la nostra. E la merita quanto noi. Perciò dobbiamo metterci del nostro: e le parti migliori, non quello che ci avanza. Noi ci mettiamo la gioia di partecipare al nostro stesso “lavoro” e l’accesso alla musica “alta” dei musicisti.
Qual è l’approccio più umano, nel senso di “rispettoso”, che si dovrebbe avere, a prescindere dall’essere credenti o meno, di fronte a una persona con handicap?
Noi tutti veniamo al mondo nella totale dipendenza dall’amore e dalla complicità che altri investono nella nostra riuscita. Non un grammo di meno di quello che deve essere offerto a chiunque, se siamo umani. Cresciamo di quello che gli altri ci fanno trovare e continuano a creare per consentirci una vita nostra. Come possiamo tirarci indietro, solo perché appare una vulnerabilità speciale, una fragilità prolungata? Chi si tira indietro, si tira indietro dall’umano: che egli stesso ha ricevuto e che egli stesso è. E’ come si dichiarasse che è pronto a fare lo stesso per chiunque di noi: l’umano evapora, sparisce, si corrompe per tutti. E non c’è giustificazione. Punto.
Cosa dice la religione cristiana a proposito della disabilità? La parabola del cieco nato è la più emblematica?
La religione cristiana, quando rimane disponibile a misurarsi con il vangelo e non con i luoghi comuni, sa che l’immagine di Dio che le è stata consegnata è quella che viene trascritta nelle parole e nei gesti di Gesù. La rivelazione di questo Dio è sigillata dal comportamento che Gesù ha nei confronti dei poveri, degli abbandonati, dei feriti, dei posseduti, degli scartati. Il vangelo incomincia da lì. E se non incomincia da lì è finito anche per tutti gli altri. I “miracoli” di Gesù non sono dimostrazioni di forza, premi per i più vicini, propaganda per il consenso. Sono gesti di liberazione dal male, esteriore, interiore, individuale, collettivo. Chi fa questo, “dimostra” Dio anche per tutti gli altri. Se uno lo fa per fare propaganda alla propria parte, alla propria sequela, alla propria religione, ha abbandonato Dio, anche se fa prediche, miracoli e dice “Signore, Signore”. La differenza cristiana è questa.
Le altre religioni come si aprono alla disabilità?
Le grandi religioni sono generalmente sensibili alla condizione dell’uomo ferito e vulnerabile. Lavorano in esse le sorprendenti armoniche di una pietas nei confronti della creazione e della creatura che rappresenta uno dei fattori più straordinari della sensibilità religiosa dell’uomo: enigmatica e universale, nella storia dell’intero genere umano. La contraddizione si apre la strada generalmente attraverso la via della superstizione irrazionale (che vede minacce del sacro e castighi divini in ogni difformità / deformità), oppure attraverso la via della politicizzazione identitaria (che apre all’ostilità dell’altro e dei figli dell’altro). Da queste infiltrazioni devono guardarsi certamente anche il cristianesimo storico e le società secolarizzate.
Nonostante l’attacco del virus, viviamo immersi nel culto dell’individualismo, del corpo levigato, della soddisfazione immediata dei bisogni. Quanto incide questa cultura nella considerazione della disabilità?
L’indifferenza nei confronti della disabilità è già di per sé una radiazione di fondo della storia umana, contro la quale non finiremo mai di lottare. La novità epocale, che si fa strada nelle nostre società affluenti, nella nostra civiltà del benessere, è semmai la sua strisciante legittimazione. L’eugenetica sacrificale della disabilità, che è sembrata per lungo tempo il marchio dell’orrore totalitario, rischia di diventare una razionalizzazione democratica del benessere. Il culto dell’individuo autosufficiente, della prestazione ottimale, dell’immagine ideale, prepara la strada in modo apparentemente meno trucido ma sostanzialmente più insidioso. La pandemia potrebbe far scoprire alle giovani generazioni che ciò a cui sono momentaneamente costretti a rinunciare, e cioè la vitalità dell’apprendimento, la libertà della compagnia, il sentirsi accolti e riconosciuti, l’eccitazione dei progetti comuni e condivisi, vale di gran lunga di più di un fisico performante e alla moda. Però noi adulti dobbiamo intensificare il nostro messaggio, a loro favore: tolleranza zero per body-shaming, bullismo precoce, piacere dell’assoggettamento, irrisione della fragilità, piacere dell’assoggettamento. Come si vede, luoghi di follia che hanno la loro iniziazione – facile e vile – nella prevaricazione della disabilità e finiscono per dilagare nell’apparente normalità delle più varie e pretestuose forme del disprezzo sociale generalizzato. L’umano è indiviso: se lo colpisci dove è apparentemente più debole, il danno ritornerà presto su di te e su tutti.