di Laura Faraone
Mi sono chiesta cosa avrei potuto scrivere sulla pandemia. E’ la prima volta che ci troviamo ad affrontare un problema di questo tipo e, se escludiamo i film di fantascienza, non ci sono molti riferimenti storici a cui riferirsi per sviluppare un’argomentazione efficace sul tema.
Allora mi sono domandata, perchè escluderli? D’altronde l’immaginario collettivo a cui ci riferiamo, in occidente, ma ormai anche a livello mondiale, è proprio quello dell’immagine in movimento del cinema. Dai fratelli Lumiere, o forse ancora prima, dagli ominidi di Platone, che nel mito della caverna guardavano nella grotta le ombre della realtà, abbiamo sempre in mente un mondo “altro”, una realtà psichica basata sulla nostra immaginazione, sulle nostre fantasie e/o credenze.
Partiamo quindi dal mio primo ricordo di un’infezione cinematografica, che risale a tanti e tanti anni fa è più precisamente al cartone della Disney “La spada nella roccia”: durante una cruenta e magica lotta mago Merlino sconfigge maga Magò, che, dopo varie trasformazioni in animali fortissimi e mostruosi, viene colta impreparata dalla trasformazione di Merlino in qualcosa di invisibile, minuscolo e mortale.. un virus. Ecco, questa è la prima rappresentazione visiva che ho del virus, a parte i puntini rossi del morbillo in terza elementare.
Dopo la “Spada nella roccia” la cinematografia si è evoluta in forme sempre più eleganti e spettacolari di contagio. Abbiamo visto decine di film incredibili con biologi nerd che diventano super eroi e soldati che si piegano alla scienza e offrono la loro forza per combattere il nemico cattivo, che ha messo in circolo il virus e che nasconde il vaccino. In queste rappresentazioni l’umanità si riversa nelle strade, cerca riparo attraverso la fuga alla ricerca di un luogo incontaminato e sicuro.
Quello che la fantasia dei registi e sceneggiatori non ha mai preso in considerazione è invece una condizione di immobilità a cui la popolazione è obbligata, come per il covid-19. Come mai non l’hanno mai presa in considerazione? La spiegazione più semplice è che nessuno sarebbe andato a vedere un film dove una battaglia per un nemico mortale, seppur invisibile, è combattuta sul divano di casa.
Quello che però è interessante evidenziare da questa situazione è che le reazioni di molte persone hanno coinciso, almeno inizialmente, con le azioni tipiche della cinematografia. Alle prime notizie di rischio pandemico, le persone si sono riversate nei supermercati e nelle farmacie, saccheggiando tutto, proprio come un episodio di qualsiasi serie apocalittica di Netflix. Nonostante le rassicurazioni degli esponenti politici e scientifici, le persone hanno reagito riferendosi a quelle conoscenze acquisite dalla televisione.
La televisione ha quindi avuto un ruolo molto importante nell’imporre uno schema di comportamento all’inizio della pandemia. Anche ora, che siamo agli arresti domiciliari, il suo ruolo non è secondario. Negli Stati Uniti per esempio il film “Virus Letale” è stato il terzo più visto. Ma perchè le persone preferiscono guardare film legati a contagi e malattie infettive, anziché spostare l’attenzione su altri aspetti della vita? Premettendo che non tutti rispondono allo stesso modo al lock down causato dalla pandemia, si può presupporre che alcune persone cerchino nella visione di film apocalittici un modo per allentare l’angoscia catastrofica. So che questo potrebbe sembrare un “no-sense”, ma in realtà non è così. La visione di questi film diventa una specie di terapia basata sul processo di “desensibilizzazione”, ossia di un processo di esposizione della persona al contenuto/evento/situazione angosciante. Per esempio una persona che ha paura ad usare l’ascensore, può, dopo essere stata accompagnata gradualmente a vivere questa esperienza, modificare le sue memorie traumatiche aggiungendo a queste un ricordo esperienziale positivo – banalmente basato sulla legge dei grandi numeri, 100 volte su 100 non sono morto e quindi l’ascensore non è più associata a una causa diretta di morte.
Vedere film basati sulle pandemie permette allo spettatore di evocare quel tipo di angoscia, sperimentarla e superarla. In un certo senso il film ci aiuta a immaginare, elaborare e trasformare qualcosa a cui non riusciamo concretamente a pensare, perchè non lo abbiamo mai vissuto prima.
Questa reazione nasce dal principio per il quale per alcune persone evitare di pensare a quello che gli fa paura, fa solo aumentare la paura e l’angoscia. Questo accade normalmente, anche in situazioni diverse da quelle in cui ci troviamo ora, come per esempio per i veterani di guerra.
Quando ho dovuto preparare la tesina di laurea sulle memorie traumatiche mi sono imbattuta in letture molto interessanti sulle diverse reazioni che avevano i soldati che tornavano dal fronte. L’aspetto che più mi ha incuriosito è quello relativo alle differenze tra soldati mutilati e no. Generalmente siamo portati a pensare, almeno io lo sono stata, che i soldati mutilati fossero quelli che soffrivano maggiormente del disturbo post-traumatico da stress. I dati rilevati da diversi studi invece dimostrano esattamente il contrario. L’interpretazione maggiormente condivisa è che i soldati che sono stati feriti hanno potuto misurare la loro capacità di resistenza al nemico e quindi hanno potuto circoscriverlo e ridurlo a una dimensione individuale e in un certo senso “gestibile”. Per i soldati che non hanno riportato ferite o mutilazioni il nemico è rimasto un fantasma dai confini potenzialità inimmaginabili. Per queste persone non aver affrontato il nemico ha fatto solo aumentare la paura, come appunto sopra esposto “distogliere lo sguardo dalla paura non fa altro che aumentarla”.
Questi processi riguardano solo alcune persone, perchè, molto più spesso è vero il contrario (in fondo il mondo è bello perchè vario). Molti infatti, chiusi in casa agli “arresti domiciliari” imposti dal lock down, cercano invece di fare qualsiasi cosa che li allontani dal pensiero del covid-19. Queste persone vivono di routine organizzate sulle 24 ore, evitando di pensare a quello che faranno il giorno dopo, la settimana successiva, o magari per le vacanze estive.
Questo accade sulla spinta di un processo di evitamento, che la saggezza popolare esporrebbe come “occhio non vede, cuore non duole”.
Potremmo pensare, in un certo senso, alla nostra mente come una macchina che per funzionare ha bisogno di una certa quantità di benzina (pensieri). Ci tengo a precisare che questa curiosa metafora sul funzionamento della mente umana – che considero molto efficace per comprendere alcune reazioni delle persone di fronte ai problemi – era stata descritta da una mamma che aveva un figlio con disabilità. Lei sosteneva che la nostra mente era in grado di gestire solo 10 pensieri contemporaneamente, ma che aveva bisogno di almeno 10 pensieri per funzionare, né uno in più, né uno in meno.
Questa considerazione l’aveva aiutata a capire come mai le altre mamme, con figli normodotati, continuassero a tormentarsi con problemi superficiali, d’altronde per funzionare la mente doveva avere almeno 10 pensieri e se non ne aveva li creava. Lei invece era contenta del fatto che non potesse elaborare più di 10 pensieri/problemi alla volta e questo le consentiva di non cadere nel baratro di un’angoscia catastrofica per il futuro suo e del figlio con disabilità, ma anzi le consentiva di riempire la sua mente di soluzioni e strategie per barcamenarsi in una realtà difficile, ma non per questo impossibile o meno bella.
In un certo senso, questo esempio ci permette di capire come per alcune persone sia più efficace concentrarsi e riempire un orizzonte di azione limitato nello spazio-tempo. In questi casi è utile organizzare minuziosamente le 24 ore della giornata, in modo da saturare le 10 unità del nostro “sistema macchina”.
E tu, che tipo di quarantenato sei?
“…. ho scherzosamente preso in considerazione queste due risposte tra molte altre possibili. Non escludo che ognuno di noi abbia reagito in modo diverso. Non preoccupatevi, è una condizione talmente nuova e surreale, che la nostra mente sta facendo il possibile per allinearsi alle informazioni e costruire uno scenario nuovo dove poter inserire e rappresentare le nostre ambizioni, intenzioni e aspettative.
In tal senso, riprendendo l’immaginario collettivo cinematografico a cui mi sono riferita inizialmente, concludo con una riflessione su cui mi sto interrogando, ora che stiamo elaborando la “fase 2” e stiamo sognando la “fase 3”. Quanto l’immaginario collettivo verrà modificato dalla pandemia? Quanto la percezione delle conseguenze delle nostre azioni è stata modificata? In questo momento in cui anche la nostra sola presenza in un luogo è vietata, perchè “pericolosa”, come influirà sulla rappresentazione che abbiamo di noi e degli altri? Dello spazio e del tempo che finora erano solo contenitori da riempire? Camminando per le strade di una città come Milano, vuota e coi negozi chiusi, mi sono resa conto quanto tutto fosse funzionale per soddisfare i nostri bisogni. Ho sempre vissuto, senza accorgermene, in un parco giochi. Dovevo solo scegliere su che giostra andare, scegliere dove bere il caffe (perchè più buono, perchè le persone sono più simpatiche o perchè è di strada), scegliere qualche angolo del mondo visitare con la sicurezza di trovare persone e servizi pronte a soddisfare i miei bisogni: dormire, mangiare, spostarmi, ecc.. Il mondo era basato sullo scambio, sulla relazione, sull’incontro.
Il covid-19 non ha colpito l’uomo in sé, la sua virulenza e determinata dal fatto che ha colpito le debolezze della nostra società. Il virus, da bravo parassita, sta sfruttando le nostre modalità di vivere.
La società globalizzata fa sì che il virus ci percepisca come un unico organismo.
Ora siamo in lock-down, nascosti, col fiato sospeso, come se fossimo braccati da un predatore. Ci stiamo muovendo all’unisono, come un unico organismo: Cina, Spagna, Italia, Stati Uniti, Filippine, ecc.. tutti (o meglio la maggior parte) siamo entrati in un “non-movimento” sincronizzato.
Sperando di uscire presto da questa situazione surreale, mi domando quanto questa esperienza modificherà la percezione di noi e degli altri. Il covid-19 ci sta obbligando ad agire come unico organismo vivente. Siamo sempre stati abituati a combattere con qualcosa, mettendoci uno contro l’altro, vedendo un buono e un cattivo, mentre ora l’unica cosa che possiamo fare e collaborare perchè quello che aiuta a stare meglio noi aiuta anche l’altro. Per la prima volta il “sistema” non incoraggia la competizione, l’individualismo e l’azione, ma comportamenti solidali. Stiamo vivendo una rivoluzione epocale, dei modi di agire e pensare. Oggi come non mai TUTTI siamo UNO, come se quello che accade a noi si ripercuotesse all’intero universo. UNIVERSO=UNUS VERTERE= TENDERE ALL’UNO. Spero tanto che sarà una trasformazione positiva che porterà a un cambiamento sociale ed economico, che renda la nostra società più vicina ai ritmi della natura e delle persone.