Clicca sulla foto per ingrandirla. Certe persone restano belle anche negli anni in cui le fotografie non erano in hd. Se abbiamo deciso di non dargliela vinta a Mister Covid, e quindi di usare la pausa forzata per recuperare le mille sfumature della nostra identità, non potevamo trascurare Graziella e Pinuccia. Nemmeno loro, come altri di cui abbiamo parlato, sono più fisicamente tra noi. Eppure anche loro sono presenti in qualche modo nel nostro agire di associazione.
La parola a Giampiero #dinuovoinviaggiocolgabbiano
Perché parlare di Graziella e Pinuccia, visto che non ci sono più da anni? Graziella viveva da sola, anche se di tanto in tanto Teresa andava a darle una mano. Era una signora non più giovane, con un carattere ruvido: s’incacchiava di brutto se dicevi qualcosa che non le piaceva e faceva un certo effetto vedere quella determinazione in un fisico così minuto. Significativo che di lei non siano quasi rimaste immagini. Questa col vestito rosso, di spalle, è sublime. “Guadagnati la mia attenzione – sembra dire mentre beve –, non darla per scontata”. Se la sapevi prendere s’ingentiliva. Per esempio quando spiegava nei dettagli la procedura di preparazione della pasta col tonno. Sono passati più di vent’anni e non mi ricordo più niente della sua ricetta tranne, queste due parole: “Bisogna mescolaaaaaaare!”, con quella sua voce che si faceva acuta. Eravamo ancora in piazza Sant’Apollinare. Mi colpiva vedere come lei avesse ben chiare le sue autonomie nonostante le difficoltà. Non solo questo. Come volontario, Graziella è stata una palestra per imparare a starmene zitto ad ascoltare senza pretendere di voler per forza “aiutare”. Per abituarmi a considerare l’altra persona non solo con i miei parametri, ma anche con i suoi, previo lo sforzo di provare a comprenderli. S’infuriava letteralmente se le facevi girare le scatole e non c’era troppo da discutere. Se n’è andata da una vita, io me la ricordo benissimo, ma non basta, va “fermata” perché è parte dell’identità del Gabbiano e infatti lo sto facendo.
Stessa cosa per la Pinuccia, donna mite, completamente diversa, tutta all’opposto, ordinata, pettinata con la scriminatura a sinistra e dai modi accoglienti. Una volta mi ha fatto una sciarpa bianca, lei così appassionata di ricamo. Se le chiedevi “Cosa fai di bello stasera, Pinuccia?”, lei si prendeva qualche secondo per assorbire la sorpresa dell’attenzione che le stavi dedicando e per gustarsi il relativo piacere. Si preparava con meticolosità e poi la risposta le s’impigliava regolarmente in qualche invisibile rete. Lei però non si arrendeva. Scioglieva i nodi, prendendosi il tempo che le serviva, e arrivava a spiegare. In quel suo “Mi metto lì sul divano… bella bella…“, detto alzando le mani in un gesto che rafforzava l’idea di tranquillità, c’era tutta la pace del mondo. Una pace che poteva permettersi di vivere non perché fosse “disabile” (chi sta pensando “poverina”, vada a quel paese, non ha capito niente). Lei aveva avuto le sue difficoltà: problemi seri a un occhio, lunghi periodi di residenza a Rosate per i problemi di salute della madre. Ma aveva saputo mantenere lo stesso la leggerezza d’animo e una serenità di fondo. La chiamerei così, questa sua virtù per niente comune: abilità.